Questa è una sezione tutta da costruire (soprattutto con chi lavora in altri ambiti).

Ciò che stiamo verificando per le professioni sanitarie ci sembra valga in analogia per tutte le altre professionalità.

Non è forse vero che gli insegnanti sono impegnati a mettere al centro della loro attività lo studente? O gli imprenditori “il cliente” e le più ampie esigenze di “responsabilità sociale” delle aziende? Non è forse vero ciò che si verifica in tutti gli ambiti, ossia che atteggiamenti di “rispetto della persona” sono essenziali per la bontà “tecnica” del gesto professionale? E che un abbandono di questa attenzione penalizza la qualità del lavoro?

Eppure tutti sappiamo che il nostro lavoro, la fatica che comporta la quotidiana e corretta applicazione del suo metodo, non si sostengono “spontaneamente” o per il riferimento a “parole d’ordine” staccate dalla loro radice. Questioni come il significato di ciò che facciamo e la domanda su cosa origina e cosa sostiene la nostra dedizione non possono essere relegate al “dopolavoro” o declassate come elementi soggettivi.

Una prestazione è efficace se la nostra professionalità non si chiude. I vari aspetti della realtà umana non sono autosufficienti e quindi la nostra professione, se si chiude, non ha in sé le potenzialità per farcela. E non è un “di meno”, anzi: il riconoscersi non autosufficienti è il riconoscimento della ricchezza della realtà, anche professionale.

E’ necessario un cambio di prospettiva. Occorre abbandonare una visione del nostro ambito professionale autosufficiente e “blindata” rispetto alle risorse della realtà tutta intera. Occorre spalancare il nostro ambito professionale alle risorse della vita, aprire spazi, riconoscere un dato elementare: ciò che è vero nella nostra esperienza umana non è estraneo o irrilevante nel nostro lavoro e viceversa.

Occorre riconoscere che la ”antropologia”, la concezione che abbiamo della persona, è rilevante per la professionalità. Essa determina l’agire professionale fin nel dettaglio tecnico e non va ricacciata nel soggettivo, ma deve divenire parte del dialogo professionale.

Questo è un importante passaggio culturale che ha conseguenze operative. Nel nostro lavoro e nelle nostre dinamiche professionali e organizzative occorre aprire, anzi spalancare spazi a quelle risorse, a quei legami educativi che viviamo nella nostra esperienza umana e che ne esprimono tutta l’ampiezza, occorre aprire alle risorse della vita.

Il professionista, così come dice la stessa etimologia del termine, è chi esprime se stesso, la propria persona nella sua interezza e ricchezza, nel gesto lavorativo e tecnico. Con il contributo di tutti chissà che non si possa disegnare anche un corso su “Il contributo della esperienza cristiana alla professionalità ……” e che lo si possa lanciare, rispondendo nel proprio ambito lavorativo alla esigenza di ragionevolezza (superare l’autoreferenzialità) e di laicità (diritto di “cittadinanza” nel dibattito professionale a posizioni esplicitamente motivate).

Leggiamo il libro e ne riparliamo.